All'evento
erano presenti poco meno di un centinaio di persone, fra cui molti
visitarori occasionali del Salone. Segue una sintesi di alcuni interventi.
Luca
Tancredi Barone (Giornalista, Radio 3 Scienza)
Sono qui perché sono anni che in qualche modo mi occupo di
politica della ricerca in questo paese. Ero dentro, poi pronto a saltare
(quando con Augusto abbiamo curato il predecessore di questo libro)
e poi dall'altro lato della barricata. Leggendo il libro, che vi consiglio,
mi sono estraniato pensando a cosa avrebbe detto un inglese, un tedesco
o un francese, per non parlare di uno scandinavo a leggere cosa si
scrive in Italia nel 2005. Cose che si sarebbero dovute scrivere 20
anni fa e ancora stiamo qui a dircele.
Di
quanto sarebbe utile valorizzare il ricercatore non solo come investimento
strutturale nel paese (quello della società della conoscenza,
sempre a venire però!), ma anche nell'impresa, e anche forse
ancora più banalmente nella pubblica amministrazione, nella
scuola. Dove lo capisce anche un bambino che una persona preparata
è
più utile di una persona non preparata.Ma tant'è. Annoiamoci
a dirci fra di noi sempre le stesse, banali, cose.
Quello che credo però è che non ci sia nulla da fare.
Chiunque si occupi anche solo tangenzialmente del mondo della ricerca
sa che le storie di Johanna Doe, l'anonima (comprensibilmente) autrice
di una agghiacciante storia del libro, o Emiliano Bruner o Chiara
Alisi e gli altri, sono tutte emblematiche e niente affatto sorprendenti.
Alzi la
mano chi trova anche una sola di queste storie implausibili. Magari
diranno che non succede sempre così, ma nessuno sobbalzerà
sulla sedia come farebbe uno slovacco qualsiasi. In un altro paese
un libro come questo avrebbe le prime pagine di tutti i giornali.
In Italia, qualche lacrimuccia per il cervello che non può
mangiare il ragù della mamma e una pur lodevolissima puntata
di una trasmissione televisiva. Fine.
Ma
non è tutta colpa dei giornalisti. Il mondo universitario in
questo paese - absit iniuria verbis - fa schifo. E quello che leggerete
è solo la punta dell'iceberg. E cercatemi uno solo (da uno
studente a un ordinario) che difenda questo sistema. Tutti ci sguazzano
(soprattutto chi è più su) ma tutti si deresponsabilizzano.
E allora penso che l'azione destrutturante di Letizia Moratti in fondo
uccida un sistema gia' in agonia. Penso che sia impossibile cambiare
e inutile sperarci. Gramscianamente, sostengo e sosterrò ogni
tentativo di migliorare (leggetevi quanto scritto da Marta Rapallini
o dalla stessa Flaminia Saccà alla fine del libro). Ma forse
- lancio agli
oratori questa provocazione - voltare pagina è uccidere la
pianta, strozzare l'università e la ricerca scientifica. Forse
allora potremo ricominciare. La strada per l'estinzione non è
lontana, per l'età anagrafica dei professori e per le scelte
politiche fatte.
Piero Angela (giornalista RAI e conduttore di SuperQuark)
Ho
accettato volentieri di scrivere una prefazione a entrambi i libri
dell'ADI visto che mi sento moralmente responsabile, a causa del sistema
ricerca italiano. Poiche' col tempo, incontro sempre piu' persone
che mi dicono di aver scelto la professione della ricerca, in vari
ambiti, anche grazie alle mie trasmissioni, e la sorte che l'Italia
riserva ai suoi cervelli, mi fa cosi' sentire responsabile per la
vita non facile di un numero sempre maggiore di persone.
Sin da quando ho iniziato la mia carriera universitaria mi e' capitato
di visitare laboratori americani pieni di giovani ricercatori italiani,
e di sentirmi chiedere dai direttori perche' l'Italia rinunciasse
a scienziati tanto brillanti. Questa situazione si protrae ormai da
moltissimi anni, una causa e' senz'altro la gerontocrazia: e' raro
trovare nella classe dirigente persone fra i 30 e i 40 anni, cosa
che e' assai frequente all'estero. Un altro problema, spesso sottolineato,
e' quello della mancanza di competizione sul merito, ed e' interessante
notare come l''Italia sia invece un paese fortemente (persino eccessivamente)
severo dal punto di vista meritocratico in alcuni settori. Pensiamo
all'allenatore di una squadra di calcio: se la squadra viene sconfitta
per alcune giornate di fila si comincia subito a parlare di sostituzione.
Al contrario in molti settori il valore o il demerito di un ricercatore
non ha la minima conseguenza sulle sue condizioni di lavoro.
Non che in Italia non ci siano buoni centri di ricerca, ma si e' erroneamente
avallato un sistema fatto di sole di grande eccellenza in mare di
mediocrita'. Questo è particolarmente dannoso, perche' abbassa
il livello generale della consapevolezza scientifica e culturale,
rendendo difficile anche a noi trovare spazi adeguati per la divulgazione
scientifica. Ed esiste un preciso legame tra prosperita' economica
e livello della ricerca scientifica.
Augusto
Palombini (co-curatore del libro e segretario ADI)
Come
curatore, insieme a Marco Bianchetti, di questo libro, intendo solo
posizionare il problema e spiegare i nostri obiettivi.
Sono contento della presenza di R.Simone, il cui libro "l'universita'
dei 3 tradimenti" fu uno degli spunti cha animarono la realizzazione
di "Cervelli in Fuga": parlare di come la dissipazione delle
intelligenze sia un male economico oltre che scientifico ed etico.
Quando scrivemmo quel libro, l'intenzione era di mostrare i mali del
sistema attraverso un sintomo: cioe' la fuga delle intelligenze. Quel
messaggio venne in larga parte frainteso da stampa e politica, e la
preoccupazione fu quella di curare il sintomo anziche' la malattia,
preoccupandosi di far
rientrare i cervelli (che spesso non ci pensano nemmeno). cosi' abbiamo
pensato di raccontare l'altra faccia del problema: le storie di chi
e' rimasto. A indicare che il nocciolo della questione non e' nelle
singole vicende umane e scientifiche, ma nel sitema che consente le
condizioni aberranti in cui operano o da cui fuggono. Questo tipo
di
"ricostruzione" passa certo per vie politiche (affermare
la valutazione, contrastare un precariato dilagante) ma anche dal
rifondare un contesto culturale assai radicato. In questo senso, credo
che un libro come questo possa contribuire a un percorso necessario.
Raffaele
Simone (Docente di Linguistica, Universita' di Roma 3)
Molto tempo fa ho affermato che l'Università italiana
era un malato incurabile e che sarebbe servita un'azione di ricostruzione
dalle fondamenta. E' anche vero che cio' rientra in un piu' generale
contesto gerontoocratico che abbraccia in Italia praticamente tutto,
e che condiziona pesantemente i livelli di produttivita', di efficienza
e di benessere del nostro paese. Io e Piero Angela siamo al centro
di questo tavolo e dell'attenzione. In questo ruolo dovrebbero esserci
dei giovani. Cio' porta gradualmente e inevitabilmente a un impoverimento
cuturale e scientifico. D'altronde, dobbiamo anche ricordare che nella
nostra universita' vige un fittizio egalitarismo: tutti i professori
prendono lo stesso stipendio, che siano premi nobel o che non abbiano
mai prodotto nulla, e che l'attuale classe docente in grandissima
parte e' entrata ope-legis o e' stata selezionata da docenti entrati
ope-legis. Questo ci da' un'idea del tempo necessario per il ripristino
di un reale sistema di selezione delle competenze, nonche' della complessita'
che comporta il tipo di mutamento di cui stiamo parlando.
Chiara
Peri (Orientalista, Dottore di Ricerca)
Personalmente, vorrei fugare due equivoci. Il primo riguarda
la formazione. Io sono felice delle mie scelte universitarie. All'università
ho ricevuto una formazione ottima da docenti di altissimo livello
e questo è un patrimonio che riconoscero' sempre. In secono
luogo, vorrei che non enfatizzassimo il ricambio generazionale in
chiave di rivoluzione meritocratica. E' vero che le porte della carriera
universitaria sono spesso chiuse ai giovani piu' meritevoli, ma ho
visto spesso, da parte dei piu' giovani che entrano nel sistema, atteggiamenti
peggiori degli anziani, senza nemmeno che questo fosse giustificato
sul piano delle competenze.
Roberto
Battiston (Docente di Fisica, Università di Perugia)
Oggi si parla tanto, e a ragione, di difficolta' della ricerca
e dei ricercatori in Italia, specialmente, ma non solo, nel mondo
dell'universita'. Ma questo stesso paese 30-40 anni fa, nel primo
dopoguerra era riuscito a posizionarsi tra i primi posti al mondo
in una serie di aree strategiche: dall' energia, allo spazio, all'informatica,
alla chimica, alla fisica, all' elettronica fino ad assurgere ad una
delle potenze industriali del pianeta. Che cosa e' successo in questi
anni? Parte del problema consiste nell' affermazione di meccanismi
per cui il merito e la qualita' della ricerca e dell' iniziativa personale
sono stati sempre meno riconosciuti ed apprezzati, mentre hanno preso
il sopravvento automatismi e meccanismi corporativi che evitando la
valutazione dei risultati ottenuti, soprattutto nel contesto di un
confronto internazionale, hanno permesso l'affermarsi di persone di
minor valore che hanno contribuito a disegnare un sistema organizzato
non piu' per competere a livello nazionale ed internazionale, ma strutturato
per mantenere posizioni di rendita e di interesse personale. E' questo
tipo di zavorra diffusa che rende difficile fare bene attivita' di
ricerca nel contesto universitario, ambiente altrimenti affascinante
e vivo per il grande numero di giovani che vi passano e per la notevole
quantita' di cultura e esperienza che comunque lo contraddistingue.
Occorre ricominciare dall' ABC, in questo caso dalla rivalutazione
del merito, con criteri di valutazione oggettivi, secondo standard
internazionali.
Tutti i paesi con economie emergenti, Cina in testa, associano una
grandissima importanza a formazione e ricerca e applicano criteri
durissimi di selezione dei migliori. Perche' in Italia abbiamo paura
di fare altrettanto ? Perche' abbiamo paura che vi sia una sana competizione
al nostro interno, in modo da esprimere una classe dirigente che poi
riesca a farlo a livello internazionale ?
Flaminia
Sacca' (Comitato Editoriale "Cervelli in Gabbia")
Se i giovani ricercatori italiani incontrano difficoltà
e lungaggini enormi nel loro percorso di accesso alla carriera universitaria,
la situazione si complica ulteriormente per le donne. Ne incontriamo
pochissime ai vertici degli organigrammi accademici nazionali (1 solo
rettore donna su 72, solo il 15% dei professori ordinari). Tuttavia
assistiamo anche qui alla femminilizzazione della professione, gia'
verificatasi in ambito scolastico: non appena una professione perde
in potere d'acquisto (bassi stipendi) e in immagine, ecco che gli
uomini si dirigono verso il privato (ben piu' qualificante e remunerativo)
e si aprono gli accessi alle donne (che ritroviamo in numero elevato
fra le ricercatrici). Il problema è di una generale riqualificazione
dell'università, da affrontarsi tramite seri meccanismi di
valutazione ex post, che premino la cooptazione d’eccellenza,
legando i finanziamenti alla produttività e a criteri qualitativi,
e non solo al numero di laureati, ad esempio.